Non è stata la mia prima volta in Eritrea. Già in passato, per motivi legati al mio ufficio di economo provinciale, avevo visitato la terra di San Giustino de Jacobis. Questa volta però, a distanza di dieci anni dall’ultima, vi erano motivazioni e aspettative nuove.

Lo scorso anno, l’8 luglio 2018, era stata siglata una storica dichiarazione di pace tra Etiopia ed Eritrea, dopo la guerra d’indipendenza iniziata nel 1998 e sospesa, ma mai conclusa, nel 2000. Tale firma ha portato all’apertura delle frontiere tra le due nazioni, al libero scambio di merci e di circolazione di persone. E’ stato promesso, ma non ancora realizzato il delineamento definitivo dei confini (e tanto altro ancora).

Tutto, insomma, sembrava porre fine al clima di guerra e di controllo che avevo sempre trovato nei miei viaggi precedenti. Forte era il mio desiderio di poter conoscere il nuovo volto di questa terra tanto amata da noi Vincenziani del sud Italia (San Giustino de Jacobis, padre della fede in Abissinia era un missionario vincenziano della ex Provincia Napoletana).

Al mio arrivo ad Asmara, purtroppo, ho potuto facilmente constatare che poco (se non nulla) era cambiato in dieci anni. E quel poco che era cambiato certo non lo era in meglio. Girando per città e villaggi, tale percezione si è sempre più rafforzata, fino a toccare il culmine a Massawa, città a forte indole turistica e balneare, che si presenta ancora come città spettrale, con le sue storiche ferite di guerra e i profondi segni di abbandono nei suoi bellissimi monumenti e palazzi.

In compenso, sono stato fortemente edificato dalla grande testimonianza di fede e di gioia che ho incrociato nei volti e nei cuori di preti e suore della Famiglia Vincenziana eritrea.

Ovunque andassi, nelle missioni delle Figlie della Carità o dei Missionari Vincenziani, ho sempre visto comunità gioiose, confratelli e consorelle che si danno totalmente al servizio dei poveri ed alla evangelizzazione. Non vi è casa vincenziana in Eritrea che non abbia contatto diretto con i poveri. E le ultime comunità fondate sono quelle più periferiche, sia in senso geografico che spirituale, dove la parola povertà si coniuga soprattutto con la vita di preti e suore oltre che con quella della gente.

La forza principale di questa nostra comunità vincenziana è certamente lo spirito di preghiera e la comunione fraterna vissuti con entusiasmo e con fervore da missionari e suore. E la grande presenza di giovani in discernimento vocazionale nelle nostre case, è la conferma di come non solo il carisma, ma anche la testimonianza di fede è viva ed affascinante.

Certo, le grosse difficoltà economiche, sociali e politiche della nazione influiscono e non poco sui sogni e sui progetti dei giovani eritrei. Anche tra preti e suore.

La tentazione di fuggire da una terra che potrebbe offrire molto più, ma che ti costringe a vivere di stenti ed aiuti internazionali è forte, questo non lo si può nascondere. Evangelizzare, in Eritrea, significa soprattutto lottare per la promozione umana e sociale. Qui più che altrove, la parola fede fa rima con carità.

Concludo questo mio scritto con due immagini simboliche che porto con me.

Il santuario di Hebo con le reliquie di San Giustino e che domina tutta la sua vallata. A chi arriva e a chi parte sembra come il cuore pulsante della fede cattolica che irrora tutto il suo territorio e le sue membra.

 

 

 

Il villaggio di Maela, l’ultimo insediamento umano prima delle montagne e del deserto. La sua chiesa dedicata a

San Giorgio, fa tornare subito in mente la frase evangelica e vincenziana “andate in tutto il mondo e proclamate il vangelo ad ogni creatura” (Mc 16, 15).

 

di Giuseppe Carulli CM<
Curia Generalizia