Ha ancora senso la missione ad gentes?
di Giuseppe Turati, CM
Tra le priorità alle quali il nostro Superiore generale vuol dare nuovo impulso e vigore c’è certamente la missione ad gentes. Sorge immediatamente una domanda: ha ancora senso la missione ad gentes oggi? Nel caso di una risposta positiva, in quali forme?
Davanti alle profezie che parlano di “fine della cristianità e di ritorno al paganesimo”[1], è realistico pensare a forme di missione che siano ancora capaci di portare il cristianesimo dentro il XXI secolo, dando nuova vitalità alla Chiesa e alla sua azione missionaria nel mondo e nella storia?
L’obiettivo di questo articolo è di rispondere affermativamente alla questione, anche se occorrerà che la nostra azione missionaria si misuri coraggiosamente con il cambiamento epocale in atto e sia capace di reinventare nuovi modelli di missione, in risposta ai movimenti dello spirito di Cristo e nella fedeltà ai doni carismatici propri del nostro carisma missionario.
Si tratta di fare un onesto e profondo discernimento del contesto culturale nel quale ci muoviamo ed una scelta di modelli di missione che può realizzarsi solo in un ambito ecclesiale fatto di ascolto, comunione e partecipazione tra carisma e istituzione. Il dinamismo sinodale dell’ascolto, nella comunione, partecipazione e missione, avviato da Papa Francesco, offre anche alla nostra Congregazione l’opportunità di rigenerarsi (“rivitalizzarsi”) in un mondo globale sempre più secolarizzato e ci lancia la sfida di ricercare nuovi modelli di missione, con rinnovato dinamismo apostolico, che sia in grado di superare quelle pretese di dominio e di potere che hanno caratterizzato, almeno in parte, le missioni ad gentes dell’epoca del colonialismo europeo e occidentale in genere.
E’ una grande sfida, ma anche una grande opportunità: la missione può ridare credito e vigore alla nostra identità e anche alla stessa Chiesa, nell’attuale contesto culturale di fine cristianità nel mondo occidentale e di avvio di un mondo globalizzato che si configura come sempre più secolarizzato, nel quale il messaggio cristiano e la religione in genere vengono relegati alla sfera privata, senza alcuna rilevanza sociale e culturale. Saremo in grado di affrontare questa sfida e di “rivitalizzare la nostra identità” (cfr. il titolo della AG 2022) all’inizio del quinto centenario della nostra esistenza come Congregazione “della Missione”?
Carisma ed istituzione
Due compiti di grande rilievo stanno dinanzi a noi. Il primo è quello di verificare quale aspetti dell’attuale magistero della Chiesa, in particolare di papa Francesco, possono essere valorizzati per rivitalizzare il nostro carisma. Il secondo compito è quello di discernere quale modello di missione, tra quelli che si stanno affermando attualmente nella Chiesa, potrà essere adottato in fedeltà al nostro carisma.
Non dimentichiamo una cosa importante: oltre al richiamo all’urgenza dell’aggiornamento dei carismi propri delle Congregazioni, papa Francesco propone anche un cammino per attuarlo: si tratta della via sinodale, perché “la sinodalità esprime la natura della Chiesa, la sua forma, il suo stile, la sua missione”[2]. Ma attenzione: non si tratta di raccogliere opinioni con il metodo del brainstorming: si tratta di ascoltare lo Spirito Santo.
Dobbiamo riconoscere che il cammino di rivitalizzazione del carisma non è per nulla facile e, per quanto riguarda la missione, è addirittura faticoso: facciamo fatica ad ascoltarci e a camminare insieme. E’ lo stesso Papa a dirci che “si richiede grande docilità, grande umiltà, per riconoscere i nostri limiti e accettare di cambiare modi di fare e di pensare superati, o metodi di apostolato che non sono più efficaci, o forme di organizzazione della vita interna che si sono rivelate inadeguate o addirittura dannose”[3].
Soprattutto, il cammino di rivitalizzazione del carisma è impegnativo: non deve privilegiare la dimensione apostolica lasciando nell’ombra altre dimensioni più personali, come la spiritualità del fondatore e dei membri. In altre parole, non deve privilegiare il fare istituzionale rispetto all’essere carismatico. La riflessione sul carisma originario deve essere inclusiva e interiore, capace di ridare valore e attualità alla personalità del nostro fondatore e alla sua spiritualità.
Un’effettiva rivitalizzazione del carisma istituzionale può venire non tanto da un amalgama di voci e opinioni dei singoli membri dell’istituzione, quanto piuttosto dal potere attrattivo della testimonianza carismatica del fondatore espressa in modi e forme opportunamente aggiornate. Non siamo noi a possedere il carisma; semmai è il carisma che, in modo dinamico e come grazia divina, possiede noi nelle varie epoche e generazioni. Perciò, è importante saperlo incarnare nelle nuove situazioni che ci troviamo ad affrontare nel nostro ministero.
Anche noi vincenziani, se vogliamo davvero rivitalizzare la nostra identità missionaria, siamo chiamati a verificare l’efficacia dei nostri ministeri in rapporto all’evangelizzazione e alla missione. Ora, l’evangelizzazione missionaria che sogna papa Francesco è “per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione” della Chiesa[4]. Viviamo in un tempo in cui il semplice aggiornamento non basta: occorre trovare forme nuove per servire il vangelo e proporre il cammino della vita cristiana.
In Europa, dove vivo, non sembra esserci un modello di missione realmente capace di trasmettere l’energia del vangelo e lo stile del cammino cristiano. In alcune Province della CEVIM si è tentato di mantenere una certa rilevanza pubblica sposando varie cause in ambito politico (migrazioni, persone senza fissa dimora, tossicodipendenze …) a rischio di far dimenticare le altre dimensioni dell’evangelizzazione (annuncio, iniziazione cristiana …). La carenza generalizzata di vocazioni missionarie dice qualcosa dello sradicamento del carisma missionario tra le nuove generazioni di cattolici europei.
In altri continenti (Africa, Asia) la situazione appare più incoraggiante. Ma anche in essi non può essere eluso il bisogno di una verifica dei modelli di missione in atto, pena la perdita dell’identità missionaria di noi vincenziani e di rilevanza nella Chiesa.
Vi sono qua e là nuovi modelli di missione, potremmo definirli “in costruzione”, che però stentano a trovare collocazione istituzionale: sono lasciati un po’ all’iniziativa personale. Quando se ne discute nelle assemblee generali (e probabilmente anche provinciali) si è soliti decidere priorità e aggiornare il proprio vocabolario, per rimanere sintonizzati con il magistero di papa Francesco. Ma appare evidente ad una lettura di tipo sociologico la fatica ad operare scelte di fondo a livello istituzionale, preferendo lasciare il discernimento ai singoli individui, che si identificano con l’uno o l’altro modello a seconda del carisma personale.
E’ vero che Dio concede i propri doni a individui concreti, non astrattamente ad una comunità o ad una struttura. E’ quindi importante discernere partendo dai carismi concessi ai singoli membri della Congregazione, Ma questa via ha un limite: se si lascia ai membri individuali il discernimento e l’identificazione con un modello di missione, si affievolisce la coscienza di un carisma ed una missione comuni, condivisi. Inoltre, in questo caso facilmente l’esperienza è condannata ad una breve durata, a non aver e cioè il seguito che solo l’istituzione può assicurare. Una possibile soluzione potrebbe essere quella di avviare processi di verifica e discernimento delle esperienze personali che diano alle varie Province la possibilità di configurarsi secondo determinati modelli di missione piuttosto che altri.
Modelli di missione
Abbiamo citato più volte l’espressione “modelli di missione” o “modelli in costruzione” Di che cosa si tratta concretamente? Il missionario comboniano portoghese Manuel Augusto Ferreira, già Superiore generale della sua Congregazione ha elencato una serie di tali modelli in una sua recente pubblicazione, a cui qui ci ispiriamo[5].
Modello della missione come annuncio
Si tratta certamente del modello più antico dal punto di vista storico e che si è affermato in modo consistente lungo secoli di storia del cristianesimo. In questo modello, la missione è vista anzitutto come “annuncio dell’evento salvifico” compiuto da Dio nella nostra vita. Al centro di questo modello c’è la Parola, annunciata, predicata.
Il modello si ispira all’attività stessa di Gesù, che nei vangeli sinottici spesso istruisce le folle con il suo insegnamento, annuncia il regno di Dio tra noi, sottolinea la centralità della Parola (ad esempio nella parabola del seminatore).
Paolo è forse l’emblema di questo modello, dal momento che egli stesso si dichiara “apostolo inviato a predicare il vangelo” (cfr. ad es. 1 Cor 1,17). Per lui la presenza dei missionari nella Chiesa è essenziale e il vangelo è un Parola da annunciare, con una potenza ed efficacia che non sono umane, bensì proprie dello Spirito Santo.
Il modello dell’annuncio si è imposto nei secoli successivi, a partire dal sec. IV, quando Benedetto da Norcia e i suoi monaci cominciano a diffondere la Parola, abbellita dalla liturgia e dall’arte, a partire da un centro geografico: il monastero.
Dopo di lui, in pieno Medioevo, i frati dei grandi ordini itineranti (Francescani e domenicani) portano la Parola fuori dai monasteri e dai convenuti e dalla loro predicazione nasce un cristianesimo rinnovato, mentre la Chiesa si sente sempre più portatrice di un annuncio da fare al mondo.
Tra la fine del XV secolo e l’inizio del successivo, con la scoperta di nuovi mondi e l’incontro di altre culture, si apre al vangelo di Cristo l’opportunità di incarnarsi in nuovi popoli, In particolare, i Gesuiti dimostrano grande vigore e capacità di apertura ai popoli che incontrano ai quali annunciano il vangelo di Cristo. Tuttavia, il modello sembra perdere di mordente con il passare del tempo, indebolito da molteplici considerazioni di ordine dottrinale e da influenza politiche che ne minano la forza della testimonianza.
Occorre attendere il movimento missionario dell’Ottocento perché la forza della parola annunciata ritrovi l’entusiasmo ed il vigore di un tempo. Numerosi istituti missionari nati nella seconda metà del XIX secolo liberano la missione dai condizionamenti e dagli interessi delle grandi potenze politiche europee, come pure dei grandi ordini religiosi[6].
Con il concilio vaticano II questo modello ha iniziato un processo di revisione e di arricchimento, con l’integrazione di elementi nuovi, come l’inculturazione (soprattutto in Africa) e la trasformazione sociale e politica (in America latina).
L’attuale pontefice ha ulteriormente rafforzato l’importanza di tale modello soprattutto con la sua esortazione apostolica Evangelium Gaudium, nella quale scende addirittura nei dettagli per proporre le sue ricette di una buona predicazione del vangelo (cfr. tutto il capitolo terzo).
Oggi però il modello di missione come annuncio appare sotto minaccia, o almeno sotto pressione: ogni annuncio esplicito di Cristo come unico Salvatore dell’umanità viene oggi facilmente etichettato come fondamentalismo religioso e proselitismo indebito, inutile pretesa di verità e unicità. Sia che lo ammettiamo o meno, oggi i missionari sono chiamati ad operare in un clima culturale che li spinge “a procrastinare il momento dell’annuncio esplicito”[7].
Modello della missione come incontro
Si tratta di un modello che ha goduto di un particolare appoggio nel magistero dei due ultimi pontefici: Benedetto XVI e Francesco. Entrambi hanno ripetutamente affermato che all’origine della missione non c’è una morale, una dottrina, bensì un incontro con la persona di Cristo e la sua parola. In altre parole, la missione ha come fine l’incontro con le persone e i popoli e la missione della Chiesa è di facilitare tale incontro, costruire ponti e non erigere muri.
In particolare, ciò che papa Francesco sogna con la sua idea di una Chiesa in uscita, è di cercare un incontro con i singoli, con i popoli e le loro culture, nel contesto di una nuova iniziativa missionaria che sia attrattiva, poiché “la Chiesa cresce nel mondo per attrazione e non per proselitismo”[8]. Sono pertanto la bellezza e la gratuità a caratterizzare questo modello di missione.
Anche questo modello ha origini antichissime, che si possono ritrovare addirittura nell’Antico Testamento, dove la coscienza religiosa del popolo si lega all’idea dell’incontro di Dio con il popolo che chiama ad un’alleanza con lui. Anche la tradizione liturgica di Israele nasce e si costruisce sotto il segno dell’incontro: durante l’esodo Mosè e gli Israeliti entravano nella tenda per incontrare Dio e stare alla sua presenza.
Anche nel Nuovo Testamento, in particolare nei vangeli, vediamo Gesù che ricerca l’incontro con le persone, in particolare con gli emarginati del suo tempo e gli scarti della società, per presentarsi ad essi come il loro “buon pastore”,
Dialogo di vita e di fede sono le varianti del modello della missione come incontro che sono state ispirate dal concilio vaticano II. Il concilio proclama la vocazione della Chiesa all’incontro e alla comunione con tutti i popoli: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, o le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di più genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (GS 1) .
Il modello della missione come incontro, con l’apertura al dialogo, si ritrova nel magistero pontificio successivo al vaticano II. Paolo VI, nella sua esortazione apostolica Evangeliii nuntiandi, afferma che “un cristiano o un gruppo di cristiani, in seno alla comunità di uomini nella quale vivono, manifestano capacità di comprensione e di accoglimento, comunione di vita e di destino con gli altri, solidarietà negli sforzi di tutti per tutto ciò che è nobile e buono” (EN 21).
Sebbene il modello maggiormente proposto dal magistero di Giovanni Paolo II è quello dell’annuncio, anche quello dell’incontro trova importanti contributi, come l’affermazione del destino universale del vangelo e l’importanza dell’incontro con i popoli nel contesto delle loro culture (inculturazione), nonché il valore della testimonianza e del dialogo interreligioso, sia pure in funzione dell’annuncio.
Papa Francesco ha rilanciato il modello della missione come incontro, da una parte ricollocando l’incontro con Cristo all’inizio del cammino del cristiano, dall’altra affermando che la missione cerca sì l’incontro, ma non per proselitismo. Per Francesco, la missione non è una delle tante forme dell’esistenza cristiana, ma qualcosa che il cristiano non può sradicare dal suo cuore: “Io sono una missione su questa terra e per questo mi trovo in questo mondo”[9]. In fondo anche questo modello si ispira alla vita stessa di Gesù, al “suo modo di trattare i poveri, i suoi gesti, La sua coerenza, la sua generosità (…) la sua dedizione totale”[10]
E’ soprattutto il documento che è scaturito dal sinodo dei vescovi sull’Amazzonia che rappresenta la l’espressione più eloquente del magistero di papa Francesco circa il modello di missione come incontro: in esso la Chiesa serve ed accompagna gli indigeni, valorizza l’ascolto dei popoli e della loro spiritualità e si impegna nella loro educazione, nella difesa delle loro terre, culture e stili di vita. Nell’ottobre 2022 Papa Francesco ha canonicamente eretto la Conferenza ecclesiale dell’Amazzonia (CEAMA), un organismo che promuove la sinodalità nella regione pan-amazzonica: si tratta evidentemente di un chiaro sostegno al modello della missione come incontro nelle regioni del bacino amazzonico.
Anche per quanto riguarda il futuro della missione nel continente asiatico, questo modello sembra offrire l’unica via percorribile, dal momento che quella cristiana è una religione minoritaria e percepita come “straniera” rispetto alle numerose culture e religioni locali (induismo, buddhismo, taoismo, scintoismo, confucianesimo, islam).
Modello della missione come servizio
Il modello della missione come servizio ha assunto una particolare enfasi a partire dal concilio vaticano II. Per un verso, questo modello pone l’accento sulla missione e sul servizio alla comunità con la promozione dei ministeri necessari alla sua crescita; per altro verso, pone in risalto il contributo dei cristiani alla trasformazione della società secondo i principi che si ispirano al vangelo. In sintesi, questo modello trova nel ministero della Chiesa e nella trasformazione sociale, il contesto missionario della propria azione.
Il modello della missione come servizio sottolinea anzitutto la matrice ecclesiale dei ministeri della Chiesa e, in secondo luogo, la loro integrazione con gli altri ministeri, con particolare enfasi sul ruolo dei laici. A partire dal concilio vaticano II, ma soprattutto negli sviluppi successivi, ha reso sempre più consistenza la consapevolezza del coinvolgimento dei laici nella trasformazione sociale: detto altrimenti, il rapporto tra missione e società, cultura, politica, economia e natura.
Il modello della missione come servizio ha ricevuto un nuovo impulso con il pontificato di papa Francesco che, particolarmente con l’enciclica Fratelli tutti, vede la Chiesa e le religioni al servizio dell’universale aspirazione alla fraternità[11].
Questo modello affonda le sue radici nei vangeli, che ci mostrano un Gesù vicino alla gente, attento alle sue situazioni concrete, ai suoi bisogni. La stessa primitiva comunità di Gerusalemme si organizza secondo questi criteri di Gesù e costituisce i diaconi per servire alle mense e rispondere ai bisogni dei poveri, degli orfani e delle vedove.
Successivamente, tutta la storia della Chiesa testimonia l’attenzione ai poveri, sostenendo il modello della missione come servizio all’umanità. Oggi la Chiesa, un po’ ovunque, dispone di una vasta rete di scuole, università, ospedali, che devono la loro origine all’azione dei missionari.
Nel secolo XX gli Stati si sono fatti carico delle proprie responsabilità e hanno avocato a sé istruzione e salute. Inoltre la società civile ha visto nascere un po’ ovunque un gran numero di Organizzazioni non governative (Ong) nei campi più diversi. Per questa ragione oggi molti missionari e missionarie si allontanano dal modello della missione come servizio e si sensibilizzano ad altri modelli.
Occorre infine aggiungere che, in certe situazioni, il modello della missione come servizio rappresenta l’unica possibilità di mantenere una presenza missionaria, come succede per esempio per le scuole ed ospedali in ambienti islamici fondamentalisti. Il rischio, in tali casi, è la riduzione della missione ad azione sociale, la sovrapposizione tra azione missionaria e azione sociale, che si presta a favorire una sorta di confusione tra l’agire missionario della Chiesa e l’agire proprio di organizzazioni non governative (a volte riducendo la Chiesa ad una ONG).
Modello della missione come fraternità
Quello della missione come “fraternità” è un modello che si potrebbe definire “in costruzione”[12].
A papa Francesco va il merito di aver riproposto agli uomini del nostro tempo, con l’enciclica Fratelli tutti, il sogno di una fraternità universale e di aver proposto ai cristiani il valore della fraternità come concetto chiave dell’azione e della missione della Chiesa nel nostro tempo.
Sebbene presente già nell’Antico Testamento, sappiamo che il concetto di “fraternità” era applicato esclusivamente ai membri del popolo di Israele: si trattava comunque di un sogno che non si è mai realizzato completamente, tant’è che i profeti finirono per proiettarla nel futuro della promessa escatologica fatta da Dio al popolo eletto.
Gesù mette in discussione i presupposti della fraternità in Israele, ossia i legami del sangue e l’appartenenza alla tribù, per proclamare una nuova fraternità, che ha per fondamento l’accoglienza e l’obbedienza alla Parola di Dio. L’apostolo Paolo si fa poi araldo di questa fraternità universale, vedendo nella comunità cristiana la comunità dei fratelli e delle sorelle in Cristo, dove non c’è più né ebreo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna”.
Il concilio vaticano II afferma che i cristiani si sentono radicati nel mondo contemporaneo, “solidali con il genere umano”: il mondo di cui parla il concilio è “quello degli uomini, ossia l’intera famiglia umana nel contesto di tutte quelle realtà entro le quali essa vive”[13]. Nell’aspirazione alla fraternità universale il concilio riconosce uno dei segni dei tempi, anzi uno dei segni più importanti del nostro tempo.
Nella sua proposta di fraternità universale e amicizia sociale (cfr. il sottotitolo dell’enciclica Fratelli tutti), papa Francesco si rifà continuamente a questa radice conciliare e al magistero dei suoi predecessori, richiamandone il fondamento teologico e spirituale: “la volontà salvifica universale di Dio si offre alla storia, a tutta l’umanità attraverso l’incarnazione del Figlio, perché tutti, attraverso la mediazione della Chiesa, possano diventare figli suoi e fratelli e sorelle tra loro” [14].
Un contributo decisivo alla missione come fraternità lo troviamo in Fratelli tutti nella proposta di papa Francesco di intendere la missione della Chiesa proprio come promozione della fraternità e dell’amicizia tra i popoli. Quello che qui è originale è la sua proposta di assumere la fraternita come ragion d’essere della missione della Chiesa nel nostro tempo. Egli non nasconde i mali del nostro tempo, i sogni andati in frantumi, i diritti calpestati, le speranze andate deluse, i conflitti mai sopiti, lo scarto sociale e le differenze accresciute con la globalizzazione[15] . Ma prospetta come soluzione a tali problemi le vie del dialogo e dell’amicizia sociale[16], che impongono una nuova cultura da costruire assieme, nella ricerca comune di fondamenti condivisi.
E’ interessante che, con Fratelli tutti, papa Francesco estende in particolare alle religioni la proposta della promozione della fraternità e dell’amicizia sociale[17]. In questo contesto si profila l’idea di una “missione interreligiosa” L’appello che papa Francesco fa con l’enciclica Fratelli tutti è un appello ad intra e ad extra, potremmo dire “ecumenico”, in quanto indirizzato anche alle altre confessioni cristiane e alle religioni in genere. L’obiettivo di una comune missione è quello di un nuovo ordine sociale e politico, caratterizzato dalla fraternità. Papa Francesco individua in questo obiettivo condiviso un nuovo corso della presenza e della missione cristiana nel mondo.
Purtroppo, il tema della fraternità e le proposte di papa Francesco sembrano rimanere all’interno di circoli di riflessione piuttosto limitati e faticano a raggiungere comunità e gruppi più ampi. “Desta sorpresa, per esempio, la mancanza di reazione all’enciclica da parte degli istituti missionari e delle società di vita apostolica, a dispetto della chiara dimensione missionaria di Fratelli tutti, o da parte di congregazioni religiose e istituti che hanno fatto propria la missione universale della Chiesa”[18]. Segno evidente che non si tratta di un modello facile da far passare dalla teoria alla pratica e capace di rimettere in discussione le forme di missione alle quali si è abituati.
In realtà, Fratelli tutti mette in discussione non solo il nostro modo di intendere la missione, ma soprattutto il nostro modo di guardare agli altri e a noi stessi, invitandoci a rivedere e a ripensare la nostra stessa identità. Questa enciclica ci invita a vedere gli altri come persone e compagni di strada e a superare la percezione dell’altro come minaccia, rivale, competitore o nemico[19].
La fraternità universale viene così proposta come risposta a pericolosi fenomeni emergenti un po’ in tutte le società attuali: tribalismi, nazionalismi, populismi e fondamentalismi politici e religiosi. Fratelli tutti suggerisce un nuovo approccio all’altro, in cui la propria identità viene riconosciuta e affermata non come separazione, bensì come apertura all’altro. Una prospettiva, questa, che ci spinge a rivedere il nostro modo abituale di pensare alla nostra missione nel mondo
Modello della missione come liberazione
Mentre il modello di missione prevalente nel secolo XIX (epoca coloniale) è quello della missione come annuncio, pian piano ci si rende conto della forza trasformatrice del vangelo, che porta in sé la capacità di migliorare le condizioni di vita delle popolazioni alle quale viene annunciato.
Questo nuovo modello di missione, che potremmo chiamare anche di “trasformazione” si accompagna con la costruzione di scuole, ospedali, centri di arti e mestieri. Si tratta di un modello che si imposto lungo tutto il XIX secolo e, fino alla metà del XX, cioè fino al concilio vaticano II. E’ poi evoluto verso il cosiddetto modello della “liberazione”, con varianti tonalità diverse, che vanno dalla “trasformazione sociale” alla “liberazione politica”.
Successivamente, a partire dal concilio vaticano II, emergono con sempre maggior forza i temi dello sviluppo, la promozione umana, la pace e la giustizia tra i popoli e le nazioni. Si sviluppa anche una teologia del progresso, che ripropone la convinzione che il vangelo e la fede cristiana si debbano esprimere e vivere come lievito di trasformazione sociale e culturale, politica ed economica. Questa teologia rafforza il modello della missione come trasformazione, ereditato dall’Ottocento, che viene sancito dal magistero ecclesiale con la Populorum progressio di Paolo VI (1967).
Negli anni successivi, però, non si produce un’evoluzione delle società nel senso indicato dal concilio, particolarmente in Africa e in America: in quest’ultimo continente si assiste ad una forte battuta d’arresto con l’assassinio di John Kennedy (nell’America del Nord) e con il ritorno delle dittature e dei regimi militari (nell’America del Sud).
Soprattutto nell’America del Sud forte sarà il sentimento di frustrazione e di delusione, che porta cristiani e missionari ad interrogarsi sul loro ruolo nella trasformazione della società. E’ in questo contesto che sorgono prima i cosiddetti “cristiani per il socialismo” e poi la “teologia della liberazione”, che portano con sé il modello della missione come “liberazione”.
In Africa e in Asia, la teologia della liberazione ed il modello della missione come liberazione hanno avuto percorsi diversi, di minore ampiezza ed impatto. In Asia si è fatto leva sui valori tradizionali asiatici e sugli atteggiamenti interiori quale possibile risposta alla povertà sociale[20]. In Africa la condizione coloniale di dipendenza, ancora forte a metà del XX secolo, la rivendicazione della propria identità culturale ha favorito il dibattito sulla inculturazione del cristianesimo, la nascita della contestuale teologia africana e di un modello di missione incentrato sulla liberazione culturale e politica[21].
Come sappiamo, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II i concetti fondamentali della teologia della liberazione vengono fortemente messi in questione ed il modello della missione come liberazione è andato sempre più perdendo di mordente. In linea con Giovanni Paolo II, anche Benedetto XVI ha mantenuto uno sguardo critico nei confronti della teologia della liberazione.
Il modello della missione come liberazione è entrato nel secolo XXI con scarsa influenza e capacità attrattiva. Contemporaneamente si è assistito ad un crescente esodo dei cattolici verso i gruppi pentecostali, sull’onda della teologia della prosperità proveniente dagli Stati Uniti d’America, cui si accompagna in America latina il ritorno dei populismi e delle dittature, stavolta per mano di uomini un tempo rivoluzionari (cfr. Venezuela, Bolivia, Nicaragua…).
L’elezione di papa Francesco nel 2013 ha rappresentato un fattore inatteso, che dà a questo modello un nuovo respiro e una nuova chance. Naturalmente, interpretare il pontificato di papa Francesco come un ritorno alla teologia della liberazione o come un sostegno esclusivo al modello di missione come liberazione sarebbe riduttivo del suo pensiero e della sua azione. Un’idea predominante nel pensiero dell’attuale pontefice sarebbe piuttosto quella di una “teologia del popolo”, che certamente non coincide con la teologia della liberazione. Si potrebbe dire che, con questa espressione, papa Francesco riprende i temi della teologia della liberazione facendone una sintesi nuova e personale.
Modello della missione come ecologia integrale
Un ultimo modello, il più recente da un punto di vista cronologico, è il modello di missione come ecologia integrale. A dar forza e contenuto all’idea di includere la promozione dell’ecologia integrale tra i modelli di missione è stata certamente l’enciclica Laudato si’ di papa Francesco ( 2015), anche se tale idea viene continuamente ribadita in interventi successivi, come ad es. in Fratelli tutti e in Querida Amazzonia (entrambi del 2020).
In questo modello tre sono le ragioni a sostegno della missione come ecologia integrale: l’intima relazione tra la fragilità del pianeta e i poveri; la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso; la critica al nuovo paradigma di progresso e alle forme di potere che derivano dalla tecnologia e creano la cultura dello scarto. Questi tre temi centrali dell’enciclica Laudato si’ collegano il tema dell’ecologia integrale alla missione della Chiesa in modo intrinseco ed indissolubile.
Certamente “quello della missione come ecologia integrale appare come modello in progress, tanto nel magistero di Francesco come nelle riflessioni e iniziative promosse dai missionari e da quanti si sentono attratti da questo modello”[22].
Tre sono anche gli ambiti nei quali si potrà continuare la costruzione di questo modello: quello informativo (ossia l’impegno a far conoscere i problemi e le sfide di fronte alle quali ci troviamo); quello propositivo (ovvero la promozione di nuovi stili di vita) e quello spirituale (di per sé specifico dei missionari)[23].
Papa Francesco sottolinea alcuni principi fondamentali che vanno tenuti presenti in vista della costruzione del modello della missione come ecologia integrale[24]. Il primo di tali principi e contenuto nell’affermazione che ogni creatura (gli esseri umani e ogni altro essere del cosmo) sono un dono di Dio e, come tali, vanno accolti e vissuti. Il secondo principio è che tutte le realtà create, anche quelle inanimate, hanno un’identità, una loro dignità e sono una ricchezza da rispettare e tutelare per le generazioni future. Il terzo principio è che, poiché tutte le realtà del creato sono un dono, noi non siamo padroni, ma amministratori e custodi dei beni affidateci dal Creatore.
Nella costruzione della missione come ecologia integrale, papa Francesco insiste sulla necessità del suo fondamento, che è la spiritualità, perché “non sarà possibile impegnarsi in cose grandi soltanto con delle dottrine, senza una mistica che ci animi, senza qualche movente interiore che dà impulso, motiva, incoraggia e dà senso all’azione personale e comunitaria”[25].
In diversi modi e occasioni papa Francesco dice che serve una “conversione ecologica”, che porti a nuovi stili di vita e di consumo, a nuovi modelli di economia, di produzione e distribuzione, che facciano spazio alla dimensione spirituale dell’uomo, Possiamo chiederci: all’interno dell’orizzonte dischiuso dalla Laudato sì e riproposto continuamente da papa Francesco, è possibile ripensare la nostra missione nel mondo d’oggi, arricchendola di dimensioni inedite ed oggigiorno imprescindibili?
Quale la missione di noi vincenziani oggi?
Al termine di questa disamina dei più ricorrenti modelli di missione ricavati dall’azione missionaria della Chiesa lungo i secoli, possiamo chiederci se ci sia e quale debba essere il modello tipicamente vincenziano o quello che meglio di ogni altro incarna il nostro carisma e la nostra spiritualità.
Desidero sgomberare immediatamente il campo da equivoci: è mia convinzione che non ci sia un modello di missione ad gentes tipicamente vincenziana e che la nostra azione missionaria debba iscriversi nella più ampia azione missionaria della chiesa universale e, in particolare, nella riconfigurazione della missione operata da papa Francesco, i cui elementi essenziali possono essere sintetizzati come segue.
I quattro principi di Evangelii Gaudium
La terza parte (cfr. EG 217-237) del capitolo quarto di questa esortazione apostolica di papa Francesco, intitolato La dimensione sociale dell’evangelizzazione, contiene quattro principi fondamentali, che costituiscono per così dire il quadro generale entro cui immaginare la missione oggi.
Il primo principio dice che il tempo è superiore allo spazio. Applicato alla missione, tale principio ci fa capire che è necessario fare attenzione più ai processi dell’azione missionaria e alla loro forza di attrazione, piuttosto che alle strategie per conquistare spazi geografici, culturali e di potere.
Il secondo principio dice che l’unità prevale sul conflitto. Riferito ai modelli di missione, questo principio ci può aiutare a capire e accettare le tensioni che possono sorgere tra i vari modelli e a mettere in evidenza l’unità profonda che caratterizza la missione della Chiesa: prima della varietà dei modelli e dei diversi modi di realizzazione della missione, viene l’unità della sua natura.
Il terzo principio dice che la realtà è più importante dell’idea. Esso ci fa capire che ai missionari e ai modelli di missione cui essi aderiscono si chiede un coinvolgimento nella realtà dal di dentro, per trasformarla in fedeltà alla Parola di Dio che la stessa missione proclama.
L’ultimo principio afferma che il tutto è superiore alla parte. Per quanto riguarda la missione, esso ci fa capire che i vari modelli vanno ricondotti ad un’unità superiore, la quale si raggiunge solo nella prospettiva del tutto. L’icona della pienezza, continua papa Francesco, non è la sfera, ma il “poliedro”, che rappresenta la confluenza delle parti, le quali mantengono la loro originalità.
Andare alle periferie.
E’ nota questa espressione, tanto cara a papa Francesco insieme a quella di “una Chiesa in uscita” come luogo proprio della missione della Chiesa nel mondo d’oggi. Che cosa ci suggeriscono queste e simili espressioni sul piano della nostra azione missionaria? Esprimono una tendenza o, meglio ancora, un atteggiamento da tenere di fronte agli altri: si tratta di un movimento proprio della natura stessa della missione.
E per essere più concreto papa Francesco precisa: “La Chiesa in uscita è una Chiesa con le porte aperte. Uscire verso gli altri per giungere alle periferie umane non vuol dire correre verso il mondo senza una direzione e senza senso”[26]. Ai missionari questo atteggiamento suggerisce una profonda apertura e inclusione verso tutti, specialmente verso i poveri e coloro che sono scartati dalla società. Se c’è uno specifico della missione vincenziana, credo che esso affondi le proprie radici proprio qui.
Passare dall’esclusione all’inclusione
I modelli dominanti fino alla metà del xx secolo si basavano sull’assioma extra ecclesiam nulla salus. La prospettiva esclusivista è stata abbandonata dal concilio vaticano II, che ha imboccato una nuova via: quella del dialogo ecumenico, nonché il carattere secolare della società e l’autonomia delle scienze.
Un atteggiamento inclusivo mette al cuore della missione i valori del vangelo e li affranca da ogni schema colonizzatore: il colonialismo politico è stato superato, ma i missionari devono stare attenti a non replicare un colonialismo culturale.
Decostruire per riconfigurare
Questa espressione riassume una preoccupazione costante nel magistero di papa Francesco. Per quale che riguarda la missione, ciò che gli sta a cuore non è il proselitismo, bensì l’attrazione; non la colonizzazione, ma una presenza rispettosa dei popoli e delle loro culture; non il clericalismo, ma la testimonianza di tutti i discepoli del Signore; non una dottrina, ma l’incontro con una Persona. In altre parole, si tratta di un’azione divina, non semplicemente umana.
Con l’attenzione al contesto, papa Francesco intende richiamare l’attenzione su alcuni fenomeni preoccupanti che caratterizzano la società attuale, come la proliferazione di nuovi movimenti religiosi (che sembrano proporre una spiritualità senza Dio), la secolarizzazione delle culture urbane (che tende a ridurre la fede ad ambito privato e intimistico), l’esasperato individualismo (che indebolisce sempre più i legami comunitari).
Conoscere a fondo tali fenomeni per combatterli è la sfida dei missionari oggi e corrisponde all’urgenza di “inculturare il vangelo”. Questo significa “destrutturare per riconfigurare”, ovvero dare nuova figura alla società.
La santità della vita del missionario
Papa Francesco stigmatizza i fenomeni che “soffocano la gioia della missione” e “ci stanno rubando l’entusiasmo missionario”, il pessimismo sterile e la mondanità spirituale (cfr. EG 81-101). Insiste soprattutto sulla pericolosità della mondanità spirituale, che consiste nel cercare la propria gloria invece che quella di Dio, i propri interessi invece che quelli di Cristo (cfr. EG 93-97). Si tratta di un atteggiamento alimentato dal fascino del soggettivismo, dell’affidamento della missione alle proprie forze e alla propria capacità organizzativa, invece che all’azione dello Spirito Santo.
In conclusione, la visione della missione come “realtà poliedrica” riconosce l’agire misterioso e sorprendente dello Spirito, che concede i suoi doni a persone diverse, senza escludere i laici, e sostiene sensibilità diverse per l’edificazione comune ed il bene di tutti.
Invece di legarsi ad un modello prestabilito, oggi la missione esige la capacità di interagire reciprocamente e di dialogo costante tra vari modelli: la ricchezza viene proprio dalla varietà di modelli di missione, specialmente in questo inizio di secolo, fortemente segnato da intolleranze e fondamentalismi.
Nessun modello, preso individualmente, può contenere tutta la ricchezza della realtà della missione della Chiesa nel mondo. La pluralità dei modelli e il contributo di papa Francesco alla “riconfigurazione missionaria” della Chiesa sono importanti anche nella prospettiva dell’apertura alla multiculturalità, un processo avviato nella Chiesa e che andrà sempre più intensificandosi nei prossimi anni, come pure sperimentiamo all’interno della nostra Piccola Compagnia.
All’orizzonte già si profila un nuovo scenario: il XXI secolo non vedrà come protagonisti i missionari originari prevalentemente del mondo occidentale, europeo e americano, come in passato, bensì missionari provenienti dalle giovani chiese, soprattutto dell’Africa e dell’Asia. Dalla capacità di operare in modo efficace in questo nuovo scenario dipenderà il futuro della nostra missione ad gentes!
[1] Cfr. Chantal DELSOL, La fine della Cristianità e il ritorno del paganesimo, Cantagalli 2022, pp., 112-113.
[2] FRANCESCO, Discorso ai fedeli della Diocesi di Roma, 18 settembre 2021.
[3] FRANCESCO, Discorso del santo padre Francesco ai partecipanti all’incontro delle associazioni di fedeli, dei movimenti ecclesiali e delle nuove comunità,16 settembre 2021.
[4] Evangelium Gaudium, 27.
[5] Manuel Augusto FERREIRA, Modelli di missione. La riconfigurazione della missione con papa Francesco. Edizioni Messaggero, Padova 2023.
[6] Cfr. F: GONZÁLEZ FERNÁNDEZ, Il Movimento Missionario del secolo XIX e il mondo neo-africano, in ID, Daniela Comboni e la rigenerazione dell’Africa, Urbaniana University Press, Roma 2003, pp. 37-79.
[7] Manuel Augusto FERREIRA, Modelli di missione…, cit., p. 59.
[8] FRANCESCO, Messaggio alle Pontificie Opere missionarie , 21 maggio 2020.
[9] EG 273.
[10] EG 265.
[11] Cfr. FT 9-55; 56-86; 271-284.
[12] Cfr. Manuel Augusto FERREIRA, Modelli di missione…, cit., p. 103.
[13] Cfr. GS 1-2.
[14] FRANCESCO, Discorso ai fedeli della diocesi di Roma, 18 settembre 2021.
[15] Cfr. FT 9-55.
[16] Cfr. FT 199-224.
[17] Cfr. FT 271-287.
[18] Manuel Augusto FERREIRA, Modelli di missione…, cit., p. 123.
[19] Cfr FT 18, 86, 133, 152,187.
[20] Cfr. per esempio A. PIERIS, Una teologia asiatica di liberazione, Cittadella, Assisi 1990.
[21] Cfr. per esempio J.-M. ELA, Il grido dell’uomo africano. Domande ai cristiani e alle Chiese dell’Africa, L’Harmattan, Torino 2001.
[22] Manuel Augusto FERREIRA, Modelli di missione…, cit., pp. 156-157.
[23] Ib., pp. 157-158.
[24] Ib. pp. 165-166.
[25] LS 216, che rimanda a EG 261.
[26] EG 46.